“Cosa possono fare le donne per prevenire la guerra?” Comincia tutto da qui, da questa (apparentemente) semplice domanda. E Virginia Woolf costruisce la sua risposta donando idealmente tre ghinee (una moneta d’oro inglese) a una causa diversa, secondo lei fondamentali per costruire un mondo più giusto e pacifico.
Ma cosa rappresentano le tre ghinee che danno il nome al titolo? La prima è destinata a sostenere l’istruzione delle donne (senza un’educazione di pari livello rispetto agli uomini, le donne non potranno mai avere una reale indipendenza né contribuire pienamente alla società); la seconda va a favore della creazione di una professione femminile indipendente (che si svincoli dal controllo economico maschile); la terza è donata a un’associazione che lotta per la pace (fondata su nuove istituzioni e valori alternativi).
Devo dire che questo testo mi ha sorpreso: mi aspettavo un saggio più simile ai suoi romanzi, forse più narrativo o intimo, mentre ho trovato un testo politico, strutturato come una lunga lettera riflessiva. In realtà, le sue tre ghinee non sono semplici offerte, ma simboli di un altro modo di pensare il potere e la libertà delle donne.
Mi ha colpito la lucidità con cui Woolf analizza i legami tra educazione, indipendenza economica femminile e la possibilità di prevenire la guerra, anche se a volte il tono - molto formale e ragionato - mi è sembrato meno coinvolgente di quello che speravo e un po’ troppo arzigogolato in lunghe digressioni.
Nonostante questo, la profondità e l’attualità delle idee di Woolf rimangono assolutamente straordinarie. Mi hanno lasciato un senso di ammirazione per il coraggio con cui vengono delineate. È un libro che chiede attenzione, ma che ripaga con spunti ancora potentissimi.
Un libro diverso, inaspettato, a cui mi sono avvicinata con estrema curiosità. Mi ha dato conferma di quanto poliedrica sia Virginia Woolf: riesce a catturare dei momenti sfuggenti - all’apparenza semplici - e a trasformarli in piccoli tesori, che possono essere affiancati alla vita quotidiana di tutti. L’ordinario che diventa straordinario. Tra tutti mi sono rimasti impressi "Quartetto d’archi" e "Kew Gardens". Il secondo, in particolare, mi ha dato le stesse sensazioni di un quadro en plein air; le aiuole sembravano anche dei microcosmi dove si intrecciavano vite e ricordi. Devo ammettere però che sono stata conquistata da "La società": qui Woolf trasforma una riunione di donne in una vera indagine sociologica, sulla scia dei temi di "Una stanza tutta per sé". Anche se preferisco di gran lunga la Woolf romanziera, sono dell’idea che i racconti meritino di essere assolutamente letti.
RECENSIONE CORALE A CURA DE "I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI"
Un’opera che divide e interroga, tra fascino letterario e resistenze di lettura: così si potrebbe definire "Tutte le anime", di Javier Marías. È un libro che non lascia indifferenti, capace di suscitare reazioni opposte ma non superficiali. La storia “nasce” anche dall’esperienza diretta dell’autore - laureato in Filologia moderna - come docente a Oxford, e la sua natura un po’ indefinita la colloca in quella zona di confine tra romanzo, saggio e memoir, che da un lato la racchiude in una struttura architettonica complessa ma dall’altro rischia di renderla incomprensibile.
Il primo impatto con il libro rivela immediatamente la sua natura FATICOSA e POCO SCORREVOLE. Non si tratta di una lettura ordinaria: manca una trama tradizionale, sostituita da un flusso di pensieri che si attorciglia su se stesso in modo brillante e filosofico. La scrittura, che ricorda quella di Saramago per la sua natura contorta, richiede al lettore un approccio paziente e meditativo. È un libro che va letto con calma, accettando i suoi ritmi dilatati e la sua tendenza a soffermarsi su ogni dettaglio (anche in maniera ripetuta).
Il protagonista, significativamente privo di nome, fluttua nei suoi pensieri in un’atmosfera sospesa che pervade tutto il romanzo. Questo aspetto GALLEGGIANTE dell’opera crea un ambiente quasi sottovuoto («luogo immutabile e inospitale e conservato sotto sciroppo»), dove i ragionamenti si sviluppano secondo un andamento ellittico e circolare, in un continuo rimando tra presente e passato.
"Tutte le anime" è stato definito da molti OSTICO e DIFFICILE, con punti ripetitivi che ritornano ossessivamente sugli stessi concetti. Molti si sono imposti la lettura e hanno proceduto quasi meccanicamente attraverso una narrazione che è resistita alla comprensione immediata. La resistenza iniziale, però, si è poi trasformata in un’esperienza gratificante per chi ha deciso di perseverare.
L’opera presenta una natura ONIRICO-CARSICA che richiede impegno ma che, superata la soglia iniziale, rivela la sua ricchezza. È un romanzo sul turbamento, dove i personaggi assumono talvolta i contorni inquietanti di figure da noir-horror, come nell’episodio della bambina che assiste al suicidio della madre. Lo stesso Pier Paolo Pasolini ha detto: perché togliersi il piacere di farsi scandalizzare? Nonostante la difficoltà e i turbamenti, il libro mantiene un carattere REALE perché riporta ragionamenti e riflessioni che appartengono all’esperienza comune.
L’ambiente accademico di Oxford viene dipinto con tratti inclementi ma affascinanti. L’atmosfera è bella ma rarefatta, difficile da penetrare, caratterizzata da giornate costantemente uguali e di un grigiore che contrappone simbolicamente il mondo mediterraneo a quello anglosassone, la luce al buio. La scrittura si rivela ELEGANTE e RAFFINATA, capace di momenti di ironia e sarcasmo che alleggeriscono la densità concettuale dell’opera. L’autore dimostra una particolare abilità nel criticare i professori “ingessati nella loro parte”, creando un ritratto ambiguo e divertente dell’ambiente accademico.
Il protagonista suscita reazioni contrastanti. Alcuni lettori lo percepiscono come poco attento all’umanità delle persone, troppo incentrato su se stesso e caratterizzato da un atteggiamento pessimista e talvolta maschilista. La sua mancanza di empatia nelle relazioni, soprattutto con le figure femminili, viene vista come un limite dell’opera. Altri, invece, interpretano questa apparente insensibilità come una scelta letteraria funzionale alla storia che Marías vuole raccontare. Il protagonista non sarebbe insensibile per natura, ma rappresenterebbe uno strumento narrativo per esplorare temi più ampi legati alla solitudine, alla morte e al turbamento esistenziale.
L’opera presenta PERSONAGGI INTERESSANTI sotto diversi punti di vista, anche se alcuni li hanno giudicati poco caratterizzati. Lo spazio che occupano nella narrazione è ben percepibile, e la loro presenza contribuisce a creare quell’atmosfera sospesa che contraddistingue tutto il romanzo («Colui che qui racconta quel che vide e quel che gli capitò non è colui che lo vide né colui al quale capitò, e neppure è un suo prolungamento, una sua ombra, un suo erede, un suo usurpatore»).
"Tutte le anime" si presenta come un libro CALDO dal punto di vista intellettuale: è un’opera particolarmente CEREBRALE che richiede un lettore disposto ad accettare la sfida di una narrazione diversa. Il tentativo di Marías di “scrivere all’inglese”, oscillando tra flusso di coscienza e humor, crea un ibrido stilistico che migliora dopo un certo punto della lettura. La natura INAFFERRABILE dell’opera alla fine si rivela essere la sua caratteristica distintiva: contrariamente alle prime impressioni, una storia c’è, ed è quella di due anni di insegnamento in Inghilterra con tutto ciò che vi si inserisce nel mezzo.
"Tutte le anime" offre diversi spunti di riflessione di notevole interesse. Il romanzo si dimostra particolarmente ricco quando affronta temi legati al mondo dei libri, degli scrittori e del collezionismo letterario. Si tratta di un libro che apre riflessioni sul valore delle opere impegnative: quelle storie che sono difficili all’inizio ma che alla fine rivelano la loro bellezza a chi ha la pazienza di penetrarle. Non è certamente un libro da consigliare a chi si avvicina per la prima volta a Marías, ma rappresenta un’esperienza significativa per lettori disposti ad accettare il suo stile di scrittura. Anche se si tratta di una lettura TORMENTATA e per certi versi AMPOLLOSA, offre dei riferimenti brillanti e evocativi, che rimangono stampati nella mente (come ad esempio la metafora dei rifiuti e della pattumiera, citata da molti).
Durante l’incontro è emerso anche un particolare apprezzamento alla copertina che in un’edizione Einaudi contiene un dipinto di Leonor Fini (artista in mostra a Palazzo Reale fino al 20 luglio), molto bello ed evocativo, che sembra già preannunciare la natura particolare di ciò che si andrà a leggere. Leonor Fini è stata una importante esponente del Surrealismo e la sua arte si è caratterizzata per aver trasceso i confini della realtà. L’affiancamento a "Tutte le anime" è suggestivo sotto questo punto di vista: una lettura che sfugge alle definizioni tradizionali e che continua a interrogare il lettore anche dopo la chiusura dell’ultima pagina.
Durante la discussione sono state suggerite due opere dello stesso autore (si scostano da quella letta insieme e potrebbero stupire): "Vite scritte" (1992) e "Domani nella battaglia pensa a me" (1994).
RECENSIONE CORALE A CURA DE "I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI"
"Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri" è un’opera incompiuta di John Steinbeck che ha suscitato curiosità e aspettative diverse. L’autore dei grandi romanzi sociali americani, si cimenta qui con la materia bretone, traducendo e rielaborando le storie arturiane di Thomas Malory in una prosa moderna.
Steinbeck aveva iniziato questo progetto già negli anni Cinquanta, precisamente nel 1956, considerandolo il lavoro della sua vita. “Per molto tempo ho desiderato trasferire nella lingua d’oggi le storie di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda,” ha scritto proprio John Steinbeck. “L’incanto che provai all’inizio, e che continuo a provare per questi racconti, non è generalmente condiviso. Ho voluto trasporli nel semplice linguaggio del giorno d’oggi per i miei giovani figlioli, e per altri figli non altrettanto giovani”.
Il libro si è rivelato AVVENTUROSO ma al tempo stesso anche un po’ RIPETITIVO. L’inizio è sembrato PIATTO e poco COINVOLGENTE, mentre l’ASPETTO MAGICO ha risollevato la narrazione rendendola più avvincente.
La lettura dello scambio epistolare incluso nel volume ha fatto rivalutare il lavoro di traduzione e di ricerca dell’autore. Ne emerge la passione fortissima di Steinbeck per questo progetto: un’idea - come un sogno - che l’autore aveva sviluppato già quando era ragazzo, portandolo a studiare per anni l’inglese medio e a documentarsi in maniera approfondita sulla cultura medievale, in un percorso che per lui ha rappresentato anche un ritorno alle radici della narrazione occidentale.
Particolarmente illuminante è stata la lettura dell’appendice, che fa una sintesi della tradizione orale della tradizione cavalleresca. Si può dire che i personaggi della mitologia cavalleresca impersonino i drammi e le vicende dell’umanità, trasformando le gesta epiche in specchi universali della condizione umana.
Ha incuriosito la scelta del testo per la riscrittura della storia dell’amor cortese. Steinbeck attinge da diverse tradizioni: da Chrétien de Troyes alle fonti più antiche, ma resta fedele all’opera iniziale di Malory, mantenendo l’architettura narrativa originale pur modernizzando il linguaggio. L’opera si presenta come un testo popolare, decisamente fuori dalle consuete abitudini di lettura, ma forse con un approccio più accessibile e diretto.
La seconda parte del libro si distingue per essere PIÙ INCENTRATA SULLE RELAZIONI TRA I PERSONAGGI, offrendo una dimensione psicologica più profonda rispetto alla prima parte, prevalentemente descrittiva delle gesta eroiche. Ciononostante, si deve riconoscere che in alcuni passaggi il testo risulta monotono e FATICOSO, richiedendo al lettore una certa pazienza per superare i momenti di minor dinamismo narrativo.
"Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri" rappresenta uno Steinbeck inedito che si confronta con la grande tradizione epica. Quest’opera segna una svolta radicale rispetto ai romanzi sociali che lo hanno reso famoso: qui non c’è l’America della Grande Depressione, ma il mondo mitico di Camelot. Steinbeck stesso ha definito questo lavoro come il suo tentativo di riscoprire “le radici della storia” e di offrire al pubblico una versione di più semplice lettura dell’epopea classica.
È un’opera che divide: affascina per la ricchezza delle fonti e per il lavoro di ricerca, ma risulta impegnativa per il ritmo non sempre sostenuto. "Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri" può essere considerato un “esperimento letterario” coraggioso che ha condotto in territori narrativi inediti e diversi dal solito, facendo apprezzare sia la maestria dell’autore nel maneggiare materiali così “lontani” dalla sua produzione abituale, sia la forza perenne dei miti cavallereschi nel parlare all’uomo contemporaneo.
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"L'amore graffia il mondo" di Ugo Riccarelli si è rivelata essere un’opera piuttosto divisiva, che ha suscitato pareri più negativi che positivi. Il romanzo ha un gusto DOLCEAMARO e attraversa le vicende di Signorina, una protagonista che incarna il sacrificio femminile nell’Italia del ventesimo secolo. È “amaro” per il periodo storico trattato – il Fascismo, la Seconda guerra mondiale, la fatica della ripresa – e per la donna rigidamente confinata in un sistema patriarcale; è “dolce” per il carattere mite, garbato ed elegante della protagonista: forte quando necessario ma poco determinata (neanche troppo per colpa sua) nel perseguire i propri sogni.
La narrazione risulta a tratti IDEALIZZATA, con alcuni elementi che appaiono forzati: la protagonista eccelle nella sartoria (grazie a un omino misterioso e ambiguo che la incanala attraverso i vestitini di carta per le sue bambole) e suo figlio nella musica, due aspetti volti quasi a compensare le limitazioni imposte dal contesto sociale. Questo approccio può sembrare riduttivo, specialmente quando si relega l’arte della sartoria - prettamente femminile - a una dimensione “minore”, trasmettendo l’idea che ogni persona dovrebbe invece avere la libertà di sperimentare indipendentemente dalle proprie qualità innate.
Emerge con forza un senso di INSODDISFAZIONE che permea l’intera storia: Signorina non sembra mai raggiungere una vera felicità, intrappolata com’è tra le aspettative sociali e i sacrifici personali. Questo aspetto del romanzo appare LACERANTE nella sua cruda realtà, poiché rappresenta una vita di dedizione che non trova ricompensa nemmeno nel finale.
Alcuni lettori hanno trovato la struttura narrativa ORDINARIA, con personaggi poco caratterizzati e una trama che potrebbe risultare piatta. Il romanzo descrive l’ordinarietà della vita quotidiana, dove ciò che guida le scelte della protagonista non è tanto l’amore quanto il senso del dovere, riflettendo una prospettiva un po’ maschilista che risulta quasi frustrante se analizzata con una mente contemporanea.
Il romanzo possiede tuttavia una dimensione JUNGHIANA interessante: per Jung, il senso della vita non è diventare perfetti ma completi, e ciascuno possiede un proprio “demone” che deve scoprire per realizzarsi pienamente. E Signorina, nel suo atteggiamento di mettere davanti sempre il prossimo, sembra rinunciare a questo “demone” interiore con la conseguenza di vivere una vita incompleta e poco felice.
C’è anche qualcosa di profondamente NOSTALGICO in questa narrazione, che porta a chiedersi: amare incondizionatamente è davvero un modo per realizzarsi? La felicità arriva solo attraverso l’amore sacrificale? Molti, leggendo il libro, hanno sentito il desiderio di scuotere Signorina, di spingerla a perseguire i suoi desideri con maggiore determinazione, di farla diventare come la donna raffigurata in copertina con lo sguardo speranzoso volto lontano.
Nonostante la vicenda sia APPASSIONANTE, il ruolo della donna appare poco convincente, forse perché raccontato da una prospettiva maschile. Il legame tra la Storia con la S maiuscola e la storia personale della protagonista rende evidente come le scelte individuali siano pesantemente condizionate dal contesto sociale e storico.
Per alcuni, l’opera è risultata DELUDENTE non tanto per la qualità letteraria, ma per il destino della protagonista: una vita di sacrifici - inserita in una storia triste - che non trova un lieto fine. Risulta doloroso pensare che questa fosse la realtà per molte donne del passato, e che per alcune (purtroppo) lo sia ancora oggi.
La struttura narrativa del romanzo può essere definita un PATCHWORK, con salti temporali che intrecciano passato e presente, collegando eventi e personaggi in maniera non lineare. Questi legami ricordano i punti di sutura tra le varie “patch” di una coperta, uniti da fili di ricordi e memorie. Un po’ sulla scia dell’amore per la sartoria di Signorina. La scrittura è apprezzabile, anche se la predominanza di descrizioni e riflessioni a discapito dei dialoghi può risultare a tratti pesante.
Per qualcuno, l’opera è apparsa INUTILE nella sua rappresentazione scontata della storia femminile, arrivando addirittura ad apprezzare di più i personaggi animali di Milio e Armida. Per altri, invece, il romanzo offre una riflessione profonda sul costo emotivo delle aspettative sociali, simboleggiato dal cedimento prima nervoso e poi cardiaco della protagonista; quel cuore letteralmente graffiato dall’amore che dà il titolo all’opera e che, per certi versi, ricorda il quadro “Le due Frida” di Frida Kahlo.
"L’amore graffia il mondo" prova a rappresentare la condizione femminile nel contesto storico italiano, ma poi lascia al lettore il compito di interrogarsi sul valore del sacrificio e sulla ricerca dell’autodeterminazione. È un’opera che, pur nelle sue contraddizioni, stimola una riflessione profonda sui ruoli di genere e sul prezzo dell’abnegazione.
"I miei stupidi intenti" di Bernardo Zannoni è un romanzo che riesce a essere sia profondo sia filosofico pur partendo da una premessa insolita: la voce narrante è una faina. Archy, questo il nome del protagonista, si interroga sulla vita e sulla morte in un mondo animalesco che, però, somiglia terribilmente al nostro.
Il viaggio di Archy è un percorso di crescita doloroso, che parte con un abbandono, e che poi prosegue attraverso inganni, apprendimenti e scoperte che riflettono i dilemmi umani più universali. C’è un’atmosfera fiabesca, ma si tratta di una fiaba oscura, che non si fa troppi problemi a mostrare la brutalità della natura (sia umana sia animale).
"Non vivevo un momento così sereno da quando avevo ucciso la gallina. Senza dubbi, o domande. Il presente era ritornato ad essere il mio mondo per qualche attimo, e fuori da quello, il nulla. Ero un animale. Ero felice."
Archy, imparando a leggere e a scrivere, si rapporta a quei concetti astratti che lo separano sempre più dagli altri animali e lo avvicinano al mondo umano. Ma il prezzo della conoscenza ha anche una duplice condanna: da una parte rende la sua storia profondamente malinconica, dall’altra lo espone a una sofferenza maggiore. Per certi aspetti, Archy ricorda la Creatura di Frankenstein. Entrambe le figure si trovano in una condizione liminale di consapevolezza acquisita che, paradossalmente, non facilita la loro integrazione ma ne accentua l’isolamento. La Creatura, dopo aver appreso autonomamente il linguaggio e la lettura, viene respinta con orrore dalla società umana; analogamente, Archy sperimenta l’abbandono quando viene allontanato dal suo nucleo familiare. In entrambi i casi, l’acquisizione della conoscenza non conduce all’accettazione ma a una dolorosa consapevolezza della propria condizione.
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"I miei stupidi intenti" di Bernardo Zannoni è un’opera letteraria che suscita reazioni profondamente contrastanti, rivelando la potenza di una narrazione capace di generare riflessioni esistenziali. La storia di Archy, una faina filosofa e “teologa”, si sviluppa come un complesso romanzo di formazione che oscilla costantemente tra il regno animale e quello umano, creando un universo narrativo unico e particolare.
Il romanzo è unanimemente riconosciuto come COINVOLGENTE: una volta iniziato, risulta difficile interromperne la lettura, tanto è ricco di spunti di riflessione che catturano la mente del lettore. Tuttavia, può risultare al contempo ANGOSCIANTE, forse per colpa della storia “troppo umanizzata”, in una dimensione che permette un dialogo insolito tra mondi apparentemente distanti.
La storia viene descritta come CRUDELE perché riflette, senza filtri, sulla vita nella natura dove la sopravvivenza è spesso brutale. La narrazione è indubbiamente CRUDA nel ritrarre la “sfortuna” che perseguita il protagonista Archy, in un mondo dove la legge della natura non fa sconti.
Il racconto si rivela SPIETATO in diversi passaggi, evocando paragoni con la Creatura di “Frankenstein” nella sua solitudine esistenziale. È un racconto STRAZIANTE che porta inevitabilmente a interrogarsi: “È il mondo animale che assomiglia a quello umano o viceversa?” Questa domanda ricorrente attraversa l'intero romanzo, generando una tensione narrativa che non trova facile risoluzione.
L'aspetto ESCATOLOGICO del libro emerge con forza nelle profonde riflessioni sulla vita, sul suo senso ultimo e sull'inevitabilità della morte. “Tratta degli argomenti della vita, del suo senso. Gli uomini si sentono tanto superiori ma alla fine somigliano tanto agli animali”, viene da pensare. Per certi aspetti sembra una ricerca dell’autore stesso, che vuole suggerire un’indagine su qualcosa che ci accompagna costantemente, evidenziando il tema della “solitudine” che permea l’intera opera.
La continua lotta di Archy contro i propri istinti, il suo rapporto conflittuale con Dio - che nega ma di cui è sempre alla ricerca - conferiscono al testo una dimensione filosofica e teologica sorprendentemente profonda (anche se in alcuni punti le dissertazioni religiose rendono la lettura un po’ pesante).
Il romanzo risulta APPASSIONANTE per chi apprezza “gli spunti realistici e le curiosità sul mondo animale”; appare realistico perché alla fine i protagonisti sono degli animali che agiscono come tali, con i loro naturali istinti. Ecco perché, provocatoriamente, il libro dovrebbe intitolarsi I miei bassi istinti anziché I miei stupidi intenti, evidenziando ancora una volta l’ambiguità del protagonista che non si lascia definire completamente né come umano né come animale.
D’altra parte, non mancano voci critiche che lo trovano NOIOSO e PRETENZIOSO, con nessuna voglia di rileggerlo. Questa polarizzazione di giudizi non fa altro che testimoniare la capacità dell’opera di stimolare reazioni forti, raramente moderate.
La natura IBRIDA del romanzo si manifesta nel “dialogo tra umano e animale”, che risulta curioso anche nei rimandi alle fiabe del passato. Il carattere PARTICOLARE della storia emerge dal fatto che gli animali “pensano come uomini”, creando un’analogia potente tra i due mondi al punto da generare riflessioni più ampie sull’esistenza. “È un testo molto intelligente" proprio per la sua capacità di tracciare questi parallelismi.
Il romanzo è descritto come ORIGINALE e COMMOVENTE nella sua esplorazione della natura animale, mostrando come “gli animali non mostrano crudeltà, sono istintivi, gli uomini invece sono crudeli”. Questa inversione di prospettiva costituisce uno degli elementi più apprezzati dell’opera.
Tutto questo si amplifica ancora di più considerando la giovane età dell’autore, che riesce ad avere uno sguardo disincantato della vita a poco più di vent’anni, rendendosi capace sia di riflessioni tanto profonde sia di generare una narrazione tanto toccante nel suo tentativo di ricerca di amore e conforto.
La trama, caratterizzata da momenti di FEROCIA e CRUDELTÀ, racconta il percorso di Archy verso la consapevolezza di sé. Contrariamente all’apparenza, non è semplicemente un racconto di egoismo: ci sono momenti di tenerezza rivelatori che rendono il rapporto del protagonista con l’affetto particolarmente significativo: Archy non è stato particolarmente fortunato nella sua vita amorosa, ma spinge comunque l’istrice ad amare la sua compagna, evidenziando una complessità emotiva che trascende il puro istinto di sopravvivenza.
Interessante è anche la visione FIGURALE, una lettura che va oltre la superficie: come nelle interpretazioni teologiche della Bibbia, gli eventi si susseguono prefigurando i precedenti. La mortalità è al centro della fiaba, e quando Archy realizza la propria condizione mortale, inizia una ricerca di senso familiare anche a tutti noi.
Questo libro BELLO, ma anche CRUDO e CINICO, offre molteplici spunti filosofici. Forse è per questo motivo che andrebbe letto due volte, proprio per coglierne appieno la profondità e comprenderne la morale.
"I miei stupidi intenti" di Bernardo Zannoni si rivela così un’opera capace di suscitare reazioni diverse a seconda della sensibilità del lettore. Il romanzo parla profondamente della condizione umana, utilizzando il mondo animale come specchio rivelatore della nostra natura più autentica.
"Tre piani" di Eshkol Nevo è un romanzo che lascia qualcosa dentro. Qualcosa di sottile, che non fa rumore ma resta. È una lettura che si insinua lentamente, che non cerca effetti speciali, e che per questo riesce a toccare corde profonde, a volte scomode. È, prima di tutto, un libro che parla delle persone e delle loro crepe: quelle piccole fessure che si aprono nella quotidianità, nei rapporti familiari, nel cuore.
«In Israele va così. Le famiglie felici e le famiglie infelici si somigliano.»
Il romanzo si sviluppa in un condominio di Tel Aviv, attraverso tre storie che occupano – letteralmente e simbolicamente – tre diversi piani dell’edificio. Ogni piano corrisponde a un personaggio, a un mondo interiore, a un piano dell’esistenza. Ma anche, come Nevo stesso ha suggerito, ai tre livelli della psiche secondo la teoria freudiana: Es, Io, Super-io. Una struttura intelligente, ben congegnata, che funziona come impalcatura per esplorare i desideri più viscerali, le tensioni della realtà e il peso delle norme sociali e della coscienza.
“Mrs Dalloway” è un romanzo molto introspettivo e fluido, ma in certi momenti mi ha messo davvero alla prova. Ho amato la capacità di Virginia Woolf di catturare il flusso di pensieri dei personaggi: di farmi entrare nella mente di Clarissa e di chi le ruota attorno, di farmi girovagare in una Londra viva e pulsante. Parallelamente, mi ha colpito parecchio a che la storia di Septimus Warren Smith, un veterano della Prima Guerra Mondiale fortemente segnato da traumi psicologici che lo condurranno a una tragica fine.
È un libro che ha poca trama ma tanta sostanza! Mi è piaciuto ma allo stesso tempo mi ha fatto perdere anche il filo, come se i pensieri di Clarissa fossero talmente intricati da sfuggirmi (È questo l’effetto che fa il flusso di coscienza? Chiedo perché non ho ancora letto l’“Ulisse” di Joyce). Tutto ciò non ha tolto valore alla lettura, anzi: è stata un’esperienza immersiva e intensa, che mi ha fatto riflettere su quanto la mente umana possa essere complessa e stratificata. Ecco, se dovessi scegliere un aggettivo per questo libro userei proprio STRATIFICATO. Il tempo sembra non scorrere, eppure è scandito dalle lancette del Big Ben, dai dettagli della città, dal dinamismo tutt’attorno. Credo che “Mrs Dalloway” non sia un libro da leggere in fretta, ma uno da assaporare con pazienza, quando si è ben predisposti a lasciarsi trasportare dalle onde del pensiero. È stato un piacere entrare in contatto con i momenti dell’essere di Clarissa.
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“Tre piani” di Eshkol Nevo è un romanzo INTIMISTA, costruito come un edificio narrativo in cui ogni piano è un mondo a sé, ma insieme compongono un’unica riflessione sull’essere umano e sulle caratteristiche che lo abitano. Tre racconti, tre protagonisti, tre confessioni: ogni piano rappresenta un diverso stato emotivo ed esistenziale, come se l’autore guidasse il lettore in un percorso DANTESCO, che va dall’Inferno del sospetto, al Purgatorio dell’insicurezza, fino al Paradiso incerto ma possibile della liberazione interiore.
Al primo piano c’è Arnon, ex militare e padre (fin troppo) premuroso, divorato dal sospetto che sua figlia possa essere stata abusata. La sua voce è carica di tensione e il racconto - rivolto a un amico in un lungo monologo - trascina in un vortice ANGOSCIANTE. La realtà resta sempre ambigua e il lettore, come il protagonista, non riesce a distinguere chiaramente i fatti dalla paura. È un piano INQUIETANTE, dove la ricerca di verità si confonde con il bisogno di controllo e il senso di giustizia rischia di trasformarsi in ossessione. Questo primo racconto è il più oscuro: AMBIGUO, irrisolto, un vero e proprio Inferno psicologico da cui non si esce indenni.
Al secondo piano vive Hani, donna sola, madre di due figli piccoli e moglie di un uomo spesso assente. Il suo racconto prende la forma di una lunga lettera indirizzata a un’amica d’infanzia, una voce TENERA, ma segnata da un profondo senso di SOLITUDINE. Quando il cognato, latitante, si presenta alla sua porta chiedendo rifugio, Hani lo accoglie senza sapere esattamente perché. Forse per ribellarsi al vuoto che la circonda, forse solo per sentire di esistere. Il suo è un piano DESOLANTE, DEPRESSIVO, dove l’equilibrio mentale è sempre in bilico. Ma è anche emotivamente vicino, UMANO: chiunque ha conosciuto il peso del non essere visto, del timore di perdersi dentro la propria vita. È il Purgatorio del romanzo, dove non si è più nell’oscurità, ma nemmeno ancora nella luce.
Infine, al terzo piano, incontriamo Dovra, ex giudice, da poco vedova. Il suo racconto si sviluppa attraverso messaggi registrati sulla segreteria telefonica del marito defunto. È qui che Nevo raggiunge forse il livello più complesso e affascinante: la protagonista si confronta con il proprio passato, con il difficile rapporto col figlio, con la solitudine scelta e subita. La sua voce è TRISTE, ma anche IRONICA e soprattutto carica di voglia di cambiare. È un racconto a tratti MISTERIOSO e profondamente INTROSPETTIVO, dove l’elaborazione del lutto lascia lentamente spazio a un desiderio di rinascita. In questo piano, il romanzo apre finalmente uno spiraglio: il NUOVO INIZIO, la SPERANZA, la possibilità di uscire da sé per ritrovare un equilibrio diverso. È il Paradiso che chiude il cerchio.
Nel complesso, “Tre piani” è un romanzo PROFONDO, che ci invita a guardare oltre le apparenze, oltre le facciate lisce e ordinate delle case, delle famiglie, dei rapporti. C’è un gioco sottile tra ciò che si mostra e ciò che si cela, e Nevo è abile nel rendere visibile quella frattura. I suoi personaggi sono figure NEVROTICHE, eppure reali, in cui è impossibile non riconoscere qualcosa di nostro. La scrittura è a tratti STRARIPANTE, densa di pensieri, piena di dettagli minimi - l’appartamento colmo di orologi, l’insistente magrezza del cognato - che sembrano marginali ma creano un realismo ipnotico, come in un film di Bergman. Ci sono momenti di grande intensità, ma anche pause brusche, digressioni che rallentano la narrazione: il romanzo è, in questo senso, SBILANCIATO, e non tutti riescono a trovare la stessa coerenza.
Qualcuno lo ha definito IRRITANTE, persino MEDIOCRE, forse per la scelta di non sciogliere del tutto i nodi, di lasciare irrisolte alcune questioni centrali. Eppure, altri lo hanno definito NECESSARIO: perché ci ricorda quanto sia fondamentale parlare, confidarsi, anche solo registrando un messaggio a chi non può più ascoltarci.
Eshkol Nevo, con una formazione in Psicologia, rende evidente il suo impianto teorico sul finale, quando la protagonista acquista l’opera omnia di Freud. Il riferimento al modello dell’Io, Es e Super-Io diventa allora non solo chiave di lettura, ma cornice dell’intero romanzo. Ma la domanda rimane: è davvero necessario offrirci questa spiegazione? Oppure ogni lettore avrebbe potuto (e dovuto) trovare la propria interpretazione, sentire sulla pelle questo percorso interiore?
“Tre piani” è un romanzo INTIMO e LIBERATORIO: Eshkol Nevo, attraverso la scrittura, racconta l’animo umano nella sua complessità, restituendo l’autenticità di ciò che siamo (e, forse, anche di ciò che non vorremmo ammettere di essere). Il pericolo più grande, sembra suggerire, sarebbe proprio quello di non riconoscere che anche dentro di noi convivono le fragilità e le ombre dei suoi personaggi. La rigidità è pericolosa e il lavoro su di sé è l’unica via per vivere davvero e per riconoscerci.
«Volevo mostrare e dimostrare che la cultura islamica, il popolo islamico e la gente religiosa possono vivere insieme nella pace e nell’amore, ma il fanatismo e gli islamici fanatici e la politica possono distruggere la vita.»
Non poteva usare parole migliori, Kader Abdolah, per descrivere il suo romanzo, "La casa della moschea" ("Het huis van de moskee"), pubblicato per la prima volta nel 2005 in lingua olandese e nel 2008, in italiano, da Iperborea. Attraverso le vicende della famiglia di Aga Jan e degli abitanti della casa della moschea, Abdolah intreccia la vita quotidiana con i grandi eventi della Storia, mostrando come il destino individuale e quello collettivo possano essere travolti dall’ascesa delle logiche estremiste e da trasformazioni difficili da arginare. La casa, simbolo di stabilità e spiritualità, diventa teatro di un cambiamento che sconvolge equilibri secolari, trasformando la fede da forza unificante a strumento di repressione.
La prosa di Kader Abdolah è intensa e – soprattutto – capace di restituire il senso di perdita di chi si vede costretto a scegliere tra adattamento o “ribellione”. E chi più di lui può comprenderne le conseguenze? Il suo vero nome è Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani, iraniano naturalizzato olandese dopo l’esilio del 1985 imposto dalla repressione degli ayatollah. La sua stessa vita è segnata da quel bivio tra resistenza ed esilio, e questo conferisce al suo romanzo una profondità e un’autenticità ancora più grandi.
«La vita non mostra mai sempre lo stesso volto e non dimenticare mai che c’è una ragione per tutto.»
È una narrazione che parla di Iran, che ha alcuni nomi ed eventi romanzati, ma che risuona ovunque vi sia un conflitto tra tradizione e modernità, tra religione e politica. Oggi, con la rinnovata attualità delle tensioni in Medio Oriente, La casa della moschea continua a essere un romanzo necessario, un ponte tra culture e un monito contro i pericoli dell’estremismo.
La storia segue la famiglia di Aga Jan, un mercante di tappeti tradizionalista e influente, custode della moschea di Senjan. La casa della moschea è il cuore pulsante della comunità, il simbolo di una religiosità che per lungo tempo ha rappresentato stabilità e ordine. Le cose cominciano a cambiare con l’avvento della rivoluzione islamica, soprattutto con l’insediamento del governo stabilito da Khomeini.
«Quando era ancora a Parigi, Khomeini aveva promesso che avrebbe tollerato chi la pensava in modo diverso da lui. Ma adesso che è al potere, ha cambiato completamente politica. Considera i militanti di sinistra gente blasfema per la quale con c’è posto nel suo regime islamico. Per questo abbiamo fatto un passo indietro e viviamo nascosti in luoghi segreti. Non ci si può fidare di Khomeini.»
RECENSIONE CORALE A CURA DE "I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI"
"La casa della moschea" di Kader Abdolah è un romanzo che mescola vita quotidiana e grandi eventi della Storia. Le vicende sono quelle della famiglia di Aga Jan, commerciante di tappeti e soprattutto stimato capofamiglia. La narrazione apre una FINESTRA SPAZIO-TEMPORALE su un mondo lontano, permettendo al lettore di diventare spettatore di accadimenti storico-religiosi che, forse, conosceva solo superficialmente. Tutto si snoda tra tradizione e cambiamento, tra delicatezza e ferocia, offrendo un affresco complesso e intenso dell’Iran pre e post rivoluzione.
La condizione femminile è un argomento piuttosto spinoso, spesso BRUTALE, e tocca corde che lasciano sgomenti. È difficile immaginarsi donna in quel contesto, durante la rivoluzione religiosa, e certi episodi rendono questi pensieri ancora più inconcepibili. Il governo stabilito da Khomeini non fa altro che rendere ogni cosa ancora più ANGOSCIANTE e PESANTE, segnata da violenza e perdite, portando in scena una componente fanatica che rende la storia, soprattutto la seconda parte, davvero OPPRIMENTE.
Ciononostante, "La casa della moschea" riesce a essere anche un libro POETICO, BELLO e STRUGGENTE: lo stile di Abdolah, con la sua profondità, richiama per certi versi le suggestioni visive e narrative di Persepolis. Si tratta di un’opera MERAVIGLIOSA che introduce chi la legge in un universo variopinto e ricco di sfumature, popolato da personaggi difficili da dimenticare e innumerevoli immagini evocative (come quelle degli uccelli). È ambientato negli anni Settanta ma può essere definito un romanzo dalla storia estremamente ATTUALE perché le sue riflessioni sulla teocrazia risuonano anche nel Medio Oriente di oggi, così fragile e in bilico.
Il senso di APPARTENENZA che permea il romanzo è davvero profondo. Ogni personaggio è visceralmente legato alla casa: un microcosmo IMMERSIVO in cui la vita scorre con le sue tradizioni e le sue ritualità. Il lettore stesso sente di abitare in quel luogo, ne percepisce i suoni e le presenze, fino a condividerne anche il pericolo crescente quando il mondo circostante - il macrocosmo intorno - precipita nel caos.
C’è un tocco di ETERNITÀ nella narrazione, che suggerisce un ciclo infinito di storia, speranza e tragedia. Ecco perché il romanzo è così COINVOLGENTE da suscitare emozioni forti: l’autore riesce a tratteggiare un “prima” e un “dopo” Khomeini con grande maestria, descrivendo un climax ascendente di trasformazioni difficili da arginare. "La casa della moschea" è STORICO perché permette di conoscere un’epoca forse poco nota ai lettori occidentali, con il respiro di una saga familiare e la magia di un racconto da Le mille e una notte. La sua capacità di far conoscere un periodo complesso, insieme alle personalità sfaccettate che lo abitano, rendono il libro EPICO e AFFASCINANTE.
Il fatto che l’autore abbia scritto in olandese aggiunge un ulteriore strato di riflessione sulla diaspora e sulla memoria: lo stesso Abdolah Kader conosce bene sulla propria pelle le conseguenze delle trasformazioni religiose e la necessità di “salvarsi” dalle repressioni degli ayatollah. Ha lasciato l'Iran nel 1985 e si è trasferito nei Paesi Bassi per scrivere “da lontano” del suo paese natio.
Tra i temi più incisivi emergono alcune opposizioni fondamentali. Da un lato, c'è il contrasto tra Teheran, più aperta e moderna, e le province, dove la vita è segnata da un maggior controllo e oppressione. Si avverte anche la tensione tra la tradizione, che scandisce il ritmo della vita quotidiana, e il fanatismo religioso, che travolge e stravolge tutto ciò che trova sul suo cammino. Un altro elemento centrale è il ruolo della poesia, utilizzata come forma di resistenza e strumento per preservare bellezza e identità. La tecnologia, invece, appare come un'arma a doppio taglio, capace di modernizzare ma anche di essere vista come uno strumento che corrompe e tenta l’animo. Un ruolo chiave lo ha anche la superstizione, che permea la narrazione attraverso la presenza simbolica degli animali, come formiche e cavallette, annunciatrici di un disastro imminente.
Aga Jan è una delle figure più apprezzate: la sua solidità interiore resiste anche quando tutto intorno a lui sembra sgretolarsi. Come lui, anche le nonne, che rappresentano un'ancora di dolcezza e saggezza, offrendo momenti di profonda commozione. Altri personaggi, come Ghalghal e Zeynat, suscitano invece emozioni contrastanti per la loro ambiguità morale e le loro scelte.
Il romanzo si divide nettamente in due parti. La prima è caratterizzata da un’atmosfera poetica e sognante, che avvolge il lettore e lo trasporta in una dimensione quasi fiabesca. La seconda, diversamente, è devastante: il cambiamento radicale della situazione politica e sociale lascia il lettore impotente di fronte al peggioramento degli eventi, rendendo ancora più struggente il confronto con il fascino iniziale della storia.
"La casa della moschea" è un romanzo che lascia il segno: un’opera intensa, dolorosa e imprescindibile, soprattutto per chi vuole comprendere le dinamiche profonde della storia iraniana e delle sue contraddizioni.
«Era un film adatto alla nuova repubblica islamica di Khomeini, perché il villaggio era lontano anni luce dalla modernità: le contadine portavano tutte il velo e il Corano era presente ovunque. Non c’era l’elettricità e neanche l'acqua potabile, non si sentiva suonare musica e nessuno aveva la radio.»
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Le tre ghinee - Virginia Woolf
“Cosa possono fare le donne per prevenire la guerra?” Comincia tutto da qui, da questa (apparentemente) semplice domanda. E Virginia Woolf costruisce la sua risposta donando idealmente tre ghinee (una moneta d’oro inglese) a una causa diversa, secondo lei fondamentali per costruire un mondo più giusto e pacifico.
Ma cosa rappresentano le tre ghinee che danno il nome al titolo? La prima è destinata a sostenere l’istruzione delle donne (senza un’educazione di pari livello rispetto agli uomini, le donne non potranno mai avere una reale indipendenza né contribuire pienamente alla società); la seconda va a favore della creazione di una professione femminile indipendente (che si svincoli dal controllo economico maschile); la terza è donata a un’associazione che lotta per la pace (fondata su nuove istituzioni e valori alternativi).
Devo dire che questo testo mi ha sorpreso: mi aspettavo un saggio più simile ai suoi romanzi, forse più narrativo o intimo, mentre ho trovato un testo politico, strutturato come una lunga lettera riflessiva. In realtà, le sue tre ghinee non sono semplici offerte, ma simboli di un altro modo di pensare il potere e la libertà delle donne.
Mi ha colpito la lucidità con cui Woolf analizza i legami tra educazione, indipendenza economica femminile e la possibilità di prevenire la guerra, anche se a volte il tono - molto formale e ragionato - mi è sembrato meno coinvolgente di quello che speravo e un po’ troppo arzigogolato in lunghe digressioni.
Nonostante questo, la profondità e l’attualità delle idee di Woolf rimangono assolutamente straordinarie. Mi hanno lasciato un senso di ammirazione per il coraggio con cui vengono delineate. È un libro che chiede attenzione, ma che ripaga con spunti ancora potentissimi.
Oggetti solidi - Virginia Woolf
Un libro diverso, inaspettato, a cui mi sono avvicinata con estrema curiosità. Mi ha dato conferma di quanto poliedrica sia Virginia Woolf: riesce a catturare dei momenti sfuggenti - all’apparenza semplici - e a trasformarli in piccoli tesori, che possono essere affiancati alla vita quotidiana di tutti. L’ordinario che diventa straordinario. Tra tutti mi sono rimasti impressi "Quartetto d’archi" e "Kew Gardens". Il secondo, in particolare, mi ha dato le stesse sensazioni di un quadro en plein air; le aiuole sembravano anche dei microcosmi dove si intrecciavano vite e ricordi. Devo ammettere però che sono stata conquistata da "La società": qui Woolf trasforma una riunione di donne in una vera indagine sociologica, sulla scia dei temi di "Una stanza tutta per sé". Anche se preferisco di gran lunga la Woolf romanziera, sono dell’idea che i racconti meritino di essere assolutamente letti.
R: Tutte le anime - Javier Marias
RECENSIONE CORALE A CURA DE "I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI"
Un’opera che divide e interroga, tra fascino letterario e resistenze di lettura: così si potrebbe definire "Tutte le anime", di Javier Marías. È un libro che non lascia indifferenti, capace di suscitare reazioni opposte ma non superficiali. La storia “nasce” anche dall’esperienza diretta dell’autore - laureato in Filologia moderna - come docente a Oxford, e la sua natura un po’ indefinita la colloca in quella zona di confine tra romanzo, saggio e memoir, che da un lato la racchiude in una struttura architettonica complessa ma dall’altro rischia di renderla incomprensibile.
Il primo impatto con il libro rivela immediatamente la sua natura FATICOSA e POCO SCORREVOLE. Non si tratta di una lettura ordinaria: manca una trama tradizionale, sostituita da un flusso di pensieri che si attorciglia su se stesso in modo brillante e filosofico. La scrittura, che ricorda quella di Saramago per la sua natura contorta, richiede al lettore un approccio paziente e meditativo. È un libro che va letto con calma, accettando i suoi ritmi dilatati e la sua tendenza a soffermarsi su ogni dettaglio (anche in maniera ripetuta).
Il protagonista, significativamente privo di nome, fluttua nei suoi pensieri in un’atmosfera sospesa che pervade tutto il romanzo. Questo aspetto GALLEGGIANTE dell’opera crea un ambiente quasi sottovuoto («luogo immutabile e inospitale e conservato sotto sciroppo»), dove i ragionamenti si sviluppano secondo un andamento ellittico e circolare, in un continuo rimando tra presente e passato.
"Tutte le anime" è stato definito da molti OSTICO e DIFFICILE, con punti ripetitivi che ritornano ossessivamente sugli stessi concetti. Molti si sono imposti la lettura e hanno proceduto quasi meccanicamente attraverso una narrazione che è resistita alla comprensione immediata. La resistenza iniziale, però, si è poi trasformata in un’esperienza gratificante per chi ha deciso di perseverare.
L’opera presenta una natura ONIRICO-CARSICA che richiede impegno ma che, superata la soglia iniziale, rivela la sua ricchezza. È un romanzo sul turbamento, dove i personaggi assumono talvolta i contorni inquietanti di figure da noir-horror, come nell’episodio della bambina che assiste al suicidio della madre. Lo stesso Pier Paolo Pasolini ha detto: perché togliersi il piacere di farsi scandalizzare? Nonostante la difficoltà e i turbamenti, il libro mantiene un carattere REALE perché riporta ragionamenti e riflessioni che appartengono all’esperienza comune.
L’ambiente accademico di Oxford viene dipinto con tratti inclementi ma affascinanti. L’atmosfera è bella ma rarefatta, difficile da penetrare, caratterizzata da giornate costantemente uguali e di un grigiore che contrappone simbolicamente il mondo mediterraneo a quello anglosassone, la luce al buio. La scrittura si rivela ELEGANTE e RAFFINATA, capace di momenti di ironia e sarcasmo che alleggeriscono la densità concettuale dell’opera. L’autore dimostra una particolare abilità nel criticare i professori “ingessati nella loro parte”, creando un ritratto ambiguo e divertente dell’ambiente accademico.
Il protagonista suscita reazioni contrastanti. Alcuni lettori lo percepiscono come poco attento all’umanità delle persone, troppo incentrato su se stesso e caratterizzato da un atteggiamento pessimista e talvolta maschilista. La sua mancanza di empatia nelle relazioni, soprattutto con le figure femminili, viene vista come un limite dell’opera. Altri, invece, interpretano questa apparente insensibilità come una scelta letteraria funzionale alla storia che Marías vuole raccontare. Il protagonista non sarebbe insensibile per natura, ma rappresenterebbe uno strumento narrativo per esplorare temi più ampi legati alla solitudine, alla morte e al turbamento esistenziale.
L’opera presenta PERSONAGGI INTERESSANTI sotto diversi punti di vista, anche se alcuni li hanno giudicati poco caratterizzati. Lo spazio che occupano nella narrazione è ben percepibile, e la loro presenza contribuisce a creare quell’atmosfera sospesa che contraddistingue tutto il romanzo («Colui che qui racconta quel che vide e quel che gli capitò non è colui che lo vide né colui al quale capitò, e neppure è un suo prolungamento, una sua ombra, un suo erede, un suo usurpatore»).
"Tutte le anime" si presenta come un libro CALDO dal punto di vista intellettuale: è un’opera particolarmente CEREBRALE che richiede un lettore disposto ad accettare la sfida di una narrazione diversa. Il tentativo di Marías di “scrivere all’inglese”, oscillando tra flusso di coscienza e humor, crea un ibrido stilistico che migliora dopo un certo punto della lettura. La natura INAFFERRABILE dell’opera alla fine si rivela essere la sua caratteristica distintiva: contrariamente alle prime impressioni, una storia c’è, ed è quella di due anni di insegnamento in Inghilterra con tutto ciò che vi si inserisce nel mezzo.
"Tutte le anime" offre diversi spunti di riflessione di notevole interesse. Il romanzo si dimostra particolarmente ricco quando affronta temi legati al mondo dei libri, degli scrittori e del collezionismo letterario. Si tratta di un libro che apre riflessioni sul valore delle opere impegnative: quelle storie che sono difficili all’inizio ma che alla fine rivelano la loro bellezza a chi ha la pazienza di penetrarle. Non è certamente un libro da consigliare a chi si avvicina per la prima volta a Marías, ma rappresenta un’esperienza significativa per lettori disposti ad accettare il suo stile di scrittura. Anche se si tratta di una lettura TORMENTATA e per certi versi AMPOLLOSA, offre dei riferimenti brillanti e evocativi, che rimangono stampati nella mente (come ad esempio la metafora dei rifiuti e della pattumiera, citata da molti).
Durante l’incontro è emerso anche un particolare apprezzamento alla copertina che in un’edizione Einaudi contiene un dipinto di Leonor Fini (artista in mostra a Palazzo Reale fino al 20 luglio), molto bello ed evocativo, che sembra già preannunciare la natura particolare di ciò che si andrà a leggere. Leonor Fini è stata una importante esponente del Surrealismo e la sua arte si è caratterizzata per aver trasceso i confini della realtà. L’affiancamento a "Tutte le anime" è suggestivo sotto questo punto di vista: una lettura che sfugge alle definizioni tradizionali e che continua a interrogare il lettore anche dopo la chiusura dell’ultima pagina.
Durante la discussione sono state suggerite due opere dello stesso autore (si scostano da quella letta insieme e potrebbero stupire): "Vite scritte" (1992) e "Domani nella battaglia pensa a me" (1994).
Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri - John Steinbeck
RECENSIONE CORALE A CURA DE "I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI"
"Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri" è un’opera incompiuta di John Steinbeck che ha suscitato curiosità e aspettative diverse. L’autore dei grandi romanzi sociali americani, si cimenta qui con la materia bretone, traducendo e rielaborando le storie arturiane di Thomas Malory in una prosa moderna.
Steinbeck aveva iniziato questo progetto già negli anni Cinquanta, precisamente nel 1956, considerandolo il lavoro della sua vita. “Per molto tempo ho desiderato trasferire nella lingua d’oggi le storie di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda,” ha scritto proprio John Steinbeck. “L’incanto che provai all’inizio, e che continuo a provare per questi racconti, non è generalmente condiviso. Ho voluto trasporli nel semplice linguaggio del giorno d’oggi per i miei giovani figlioli, e per altri figli non altrettanto giovani”.
Il libro si è rivelato AVVENTUROSO ma al tempo stesso anche un po’ RIPETITIVO. L’inizio è sembrato PIATTO e poco COINVOLGENTE, mentre l’ASPETTO MAGICO ha risollevato la narrazione rendendola più avvincente.
La lettura dello scambio epistolare incluso nel volume ha fatto rivalutare il lavoro di traduzione e di ricerca dell’autore. Ne emerge la passione fortissima di Steinbeck per questo progetto: un’idea - come un sogno - che l’autore aveva sviluppato già quando era ragazzo, portandolo a studiare per anni l’inglese medio e a documentarsi in maniera approfondita sulla cultura medievale, in un percorso che per lui ha rappresentato anche un ritorno alle radici della narrazione occidentale.
Particolarmente illuminante è stata la lettura dell’appendice, che fa una sintesi della tradizione orale della tradizione cavalleresca. Si può dire che i personaggi della mitologia cavalleresca impersonino i drammi e le vicende dell’umanità, trasformando le gesta epiche in specchi universali della condizione umana.
Ha incuriosito la scelta del testo per la riscrittura della storia dell’amor cortese. Steinbeck attinge da diverse tradizioni: da Chrétien de Troyes alle fonti più antiche, ma resta fedele all’opera iniziale di Malory, mantenendo l’architettura narrativa originale pur modernizzando il linguaggio. L’opera si presenta come un testo popolare, decisamente fuori dalle consuete abitudini di lettura, ma forse con un approccio più accessibile e diretto.
La seconda parte del libro si distingue per essere PIÙ INCENTRATA SULLE RELAZIONI TRA I PERSONAGGI, offrendo una dimensione psicologica più profonda rispetto alla prima parte, prevalentemente descrittiva delle gesta eroiche. Ciononostante, si deve riconoscere che in alcuni passaggi il testo risulta monotono e FATICOSO, richiedendo al lettore una certa pazienza per superare i momenti di minor dinamismo narrativo.
"Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri" rappresenta uno Steinbeck inedito che si confronta con la grande tradizione epica. Quest’opera segna una svolta radicale rispetto ai romanzi sociali che lo hanno reso famoso: qui non c’è l’America della Grande Depressione, ma il mondo mitico di Camelot. Steinbeck stesso ha definito questo lavoro come il suo tentativo di riscoprire “le radici della storia” e di offrire al pubblico una versione di più semplice lettura dell’epopea classica.
È un’opera che divide: affascina per la ricchezza delle fonti e per il lavoro di ricerca, ma risulta impegnativa per il ritmo non sempre sostenuto. "Le gesta di Re Artù e dei suoi nobili cavalieri" può essere considerato un “esperimento letterario” coraggioso che ha condotto in territori narrativi inediti e diversi dal solito, facendo apprezzare sia la maestria dell’autore nel maneggiare materiali così “lontani” dalla sua produzione abituale, sia la forza perenne dei miti cavallereschi nel parlare all’uomo contemporaneo.
Re: L' amore graffia il mondo - Ugo Riccarelli
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"L'amore graffia il mondo" di Ugo Riccarelli si è rivelata essere un’opera piuttosto divisiva, che ha suscitato pareri più negativi che positivi. Il romanzo ha un gusto DOLCEAMARO e attraversa le vicende di Signorina, una protagonista che incarna il sacrificio femminile nell’Italia del ventesimo secolo. È “amaro” per il periodo storico trattato – il Fascismo, la Seconda guerra mondiale, la fatica della ripresa – e per la donna rigidamente confinata in un sistema patriarcale; è “dolce” per il carattere mite, garbato ed elegante della protagonista: forte quando necessario ma poco determinata (neanche troppo per colpa sua) nel perseguire i propri sogni.
La narrazione risulta a tratti IDEALIZZATA, con alcuni elementi che appaiono forzati: la protagonista eccelle nella sartoria (grazie a un omino misterioso e ambiguo che la incanala attraverso i vestitini di carta per le sue bambole) e suo figlio nella musica, due aspetti volti quasi a compensare le limitazioni imposte dal contesto sociale. Questo approccio può sembrare riduttivo, specialmente quando si relega l’arte della sartoria - prettamente femminile - a una dimensione “minore”, trasmettendo l’idea che ogni persona dovrebbe invece avere la libertà di sperimentare indipendentemente dalle proprie qualità innate.
Emerge con forza un senso di INSODDISFAZIONE che permea l’intera storia: Signorina non sembra mai raggiungere una vera felicità, intrappolata com’è tra le aspettative sociali e i sacrifici personali. Questo aspetto del romanzo appare LACERANTE nella sua cruda realtà, poiché rappresenta una vita di dedizione che non trova ricompensa nemmeno nel finale.
Alcuni lettori hanno trovato la struttura narrativa ORDINARIA, con personaggi poco caratterizzati e una trama che potrebbe risultare piatta. Il romanzo descrive l’ordinarietà della vita quotidiana, dove ciò che guida le scelte della protagonista non è tanto l’amore quanto il senso del dovere, riflettendo una prospettiva un po’ maschilista che risulta quasi frustrante se analizzata con una mente contemporanea.
Il romanzo possiede tuttavia una dimensione JUNGHIANA interessante: per Jung, il senso della vita non è diventare perfetti ma completi, e ciascuno possiede un proprio “demone” che deve scoprire per realizzarsi pienamente. E Signorina, nel suo atteggiamento di mettere davanti sempre il prossimo, sembra rinunciare a questo “demone” interiore con la conseguenza di vivere una vita incompleta e poco felice.
C’è anche qualcosa di profondamente NOSTALGICO in questa narrazione, che porta a chiedersi: amare incondizionatamente è davvero un modo per realizzarsi? La felicità arriva solo attraverso l’amore sacrificale? Molti, leggendo il libro, hanno sentito il desiderio di scuotere Signorina, di spingerla a perseguire i suoi desideri con maggiore determinazione, di farla diventare come la donna raffigurata in copertina con lo sguardo speranzoso volto lontano.
Nonostante la vicenda sia APPASSIONANTE, il ruolo della donna appare poco convincente, forse perché raccontato da una prospettiva maschile. Il legame tra la Storia con la S maiuscola e la storia personale della protagonista rende evidente come le scelte individuali siano pesantemente condizionate dal contesto sociale e storico.
Per alcuni, l’opera è risultata DELUDENTE non tanto per la qualità letteraria, ma per il destino della protagonista: una vita di sacrifici - inserita in una storia triste - che non trova un lieto fine. Risulta doloroso pensare che questa fosse la realtà per molte donne del passato, e che per alcune (purtroppo) lo sia ancora oggi.
La struttura narrativa del romanzo può essere definita un PATCHWORK, con salti temporali che intrecciano passato e presente, collegando eventi e personaggi in maniera non lineare. Questi legami ricordano i punti di sutura tra le varie “patch” di una coperta, uniti da fili di ricordi e memorie. Un po’ sulla scia dell’amore per la sartoria di Signorina. La scrittura è apprezzabile, anche se la predominanza di descrizioni e riflessioni a discapito dei dialoghi può risultare a tratti pesante.
Per qualcuno, l’opera è apparsa INUTILE nella sua rappresentazione scontata della storia femminile, arrivando addirittura ad apprezzare di più i personaggi animali di Milio e Armida. Per altri, invece, il romanzo offre una riflessione profonda sul costo emotivo delle aspettative sociali, simboleggiato dal cedimento prima nervoso e poi cardiaco della protagonista; quel cuore letteralmente graffiato dall’amore che dà il titolo all’opera e che, per certi versi, ricorda il quadro “Le due Frida” di Frida Kahlo.
"L’amore graffia il mondo" prova a rappresentare la condizione femminile nel contesto storico italiano, ma poi lascia al lettore il compito di interrogarsi sul valore del sacrificio e sulla ricerca dell’autodeterminazione. È un’opera che, pur nelle sue contraddizioni, stimola una riflessione profonda sui ruoli di genere e sul prezzo dell’abnegazione.
Re: I miei stupidi intenti - Bernardo Zannoni
"I miei stupidi intenti" di Bernardo Zannoni è un romanzo che riesce a essere sia profondo sia filosofico pur partendo da una premessa insolita: la voce narrante è una faina. Archy, questo il nome del protagonista, si interroga sulla vita e sulla morte in un mondo animalesco che, però, somiglia terribilmente al nostro.
Il viaggio di Archy è un percorso di crescita doloroso, che parte con un abbandono, e che poi prosegue attraverso inganni, apprendimenti e scoperte che riflettono i dilemmi umani più universali. C’è un’atmosfera fiabesca, ma si tratta di una fiaba oscura, che non si fa troppi problemi a mostrare la brutalità della natura (sia umana sia animale).
"Non vivevo un momento così sereno da quando avevo ucciso la gallina. Senza dubbi, o domande. Il presente era ritornato ad essere il mio mondo per qualche attimo, e fuori da quello, il nulla. Ero un animale. Ero felice."
Archy, imparando a leggere e a scrivere, si rapporta a quei concetti astratti che lo separano sempre più dagli altri animali e lo avvicinano al mondo umano. Ma il prezzo della conoscenza ha anche una duplice condanna: da una parte rende la sua storia profondamente malinconica, dall’altra lo espone a una sofferenza maggiore. Per certi aspetti, Archy ricorda la Creatura di Frankenstein. Entrambe le figure si trovano in una condizione liminale di consapevolezza acquisita che, paradossalmente, non facilita la loro integrazione ma ne accentua l’isolamento. La Creatura, dopo aver appreso autonomamente il linguaggio e la lettura, viene respinta con orrore dalla società umana; analogamente, Archy sperimenta l’abbandono quando viene allontanato dal suo nucleo familiare. In entrambi i casi, l’acquisizione della conoscenza non conduce all’accettazione ma a una dolorosa consapevolezza della propria condizione.
Per leggere la recensione completa: https://bookivora.com/2025/05/08/i-miei-stupidi-intenti-lesistenzialismo-secondo-una-faina/
R: I miei stupidi intenti - Bernardo Zannoni
RECENSIONE CORALE A CURA DE "I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI"
"I miei stupidi intenti" di Bernardo Zannoni è un’opera letteraria che suscita reazioni profondamente contrastanti, rivelando la potenza di una narrazione capace di generare riflessioni esistenziali. La storia di Archy, una faina filosofa e “teologa”, si sviluppa come un complesso romanzo di formazione che oscilla costantemente tra il regno animale e quello umano, creando un universo narrativo unico e particolare.
Il romanzo è unanimemente riconosciuto come COINVOLGENTE: una volta iniziato, risulta difficile interromperne la lettura, tanto è ricco di spunti di riflessione che catturano la mente del lettore. Tuttavia, può risultare al contempo ANGOSCIANTE, forse per colpa della storia “troppo umanizzata”, in una dimensione che permette un dialogo insolito tra mondi apparentemente distanti.
La storia viene descritta come CRUDELE perché riflette, senza filtri, sulla vita nella natura dove la sopravvivenza è spesso brutale. La narrazione è indubbiamente CRUDA nel ritrarre la “sfortuna” che perseguita il protagonista Archy, in un mondo dove la legge della natura non fa sconti.
Il racconto si rivela SPIETATO in diversi passaggi, evocando paragoni con la Creatura di “Frankenstein” nella sua solitudine esistenziale. È un racconto STRAZIANTE che porta inevitabilmente a interrogarsi: “È il mondo animale che assomiglia a quello umano o viceversa?” Questa domanda ricorrente attraversa l'intero romanzo, generando una tensione narrativa che non trova facile risoluzione.
L'aspetto ESCATOLOGICO del libro emerge con forza nelle profonde riflessioni sulla vita, sul suo senso ultimo e sull'inevitabilità della morte. “Tratta degli argomenti della vita, del suo senso. Gli uomini si sentono tanto superiori ma alla fine somigliano tanto agli animali”, viene da pensare. Per certi aspetti sembra una ricerca dell’autore stesso, che vuole suggerire un’indagine su qualcosa che ci accompagna costantemente, evidenziando il tema della “solitudine” che permea l’intera opera.
La continua lotta di Archy contro i propri istinti, il suo rapporto conflittuale con Dio - che nega ma di cui è sempre alla ricerca - conferiscono al testo una dimensione filosofica e teologica sorprendentemente profonda (anche se in alcuni punti le dissertazioni religiose rendono la lettura un po’ pesante).
Il romanzo risulta APPASSIONANTE per chi apprezza “gli spunti realistici e le curiosità sul mondo animale”; appare realistico perché alla fine i protagonisti sono degli animali che agiscono come tali, con i loro naturali istinti. Ecco perché, provocatoriamente, il libro dovrebbe intitolarsi I miei bassi istinti anziché I miei stupidi intenti, evidenziando ancora una volta l’ambiguità del protagonista che non si lascia definire completamente né come umano né come animale.
D’altra parte, non mancano voci critiche che lo trovano NOIOSO e PRETENZIOSO, con nessuna voglia di rileggerlo. Questa polarizzazione di giudizi non fa altro che testimoniare la capacità dell’opera di stimolare reazioni forti, raramente moderate.
La natura IBRIDA del romanzo si manifesta nel “dialogo tra umano e animale”, che risulta curioso anche nei rimandi alle fiabe del passato. Il carattere PARTICOLARE della storia emerge dal fatto che gli animali “pensano come uomini”, creando un’analogia potente tra i due mondi al punto da generare riflessioni più ampie sull’esistenza. “È un testo molto intelligente" proprio per la sua capacità di tracciare questi parallelismi.
Il romanzo è descritto come ORIGINALE e COMMOVENTE nella sua esplorazione della natura animale, mostrando come “gli animali non mostrano crudeltà, sono istintivi, gli uomini invece sono crudeli”. Questa inversione di prospettiva costituisce uno degli elementi più apprezzati dell’opera.
Tutto questo si amplifica ancora di più considerando la giovane età dell’autore, che riesce ad avere uno sguardo disincantato della vita a poco più di vent’anni, rendendosi capace sia di riflessioni tanto profonde sia di generare una narrazione tanto toccante nel suo tentativo di ricerca di amore e conforto.
La trama, caratterizzata da momenti di FEROCIA e CRUDELTÀ, racconta il percorso di Archy verso la consapevolezza di sé. Contrariamente all’apparenza, non è semplicemente un racconto di egoismo: ci sono momenti di tenerezza rivelatori che rendono il rapporto del protagonista con l’affetto particolarmente significativo: Archy non è stato particolarmente fortunato nella sua vita amorosa, ma spinge comunque l’istrice ad amare la sua compagna, evidenziando una complessità emotiva che trascende il puro istinto di sopravvivenza.
Interessante è anche la visione FIGURALE, una lettura che va oltre la superficie: come nelle interpretazioni teologiche della Bibbia, gli eventi si susseguono prefigurando i precedenti. La mortalità è al centro della fiaba, e quando Archy realizza la propria condizione mortale, inizia una ricerca di senso familiare anche a tutti noi.
Questo libro BELLO, ma anche CRUDO e CINICO, offre molteplici spunti filosofici. Forse è per questo motivo che andrebbe letto due volte, proprio per coglierne appieno la profondità e comprenderne la morale.
"I miei stupidi intenti" di Bernardo Zannoni si rivela così un’opera capace di suscitare reazioni diverse a seconda della sensibilità del lettore. Il romanzo parla profondamente della condizione umana, utilizzando il mondo animale come specchio rivelatore della nostra natura più autentica.
Re: Tre piani - Eshkol Nevo
"Tre piani" di Eshkol Nevo è un romanzo che lascia qualcosa dentro. Qualcosa di sottile, che non fa rumore ma resta. È una lettura che si insinua lentamente, che non cerca effetti speciali, e che per questo riesce a toccare corde profonde, a volte scomode. È, prima di tutto, un libro che parla delle persone e delle loro crepe: quelle piccole fessure che si aprono nella quotidianità, nei rapporti familiari, nel cuore.
«In Israele va così. Le famiglie felici e le famiglie infelici si somigliano.»
Il romanzo si sviluppa in un condominio di Tel Aviv, attraverso tre storie che occupano – letteralmente e simbolicamente – tre diversi piani dell’edificio. Ogni piano corrisponde a un personaggio, a un mondo interiore, a un piano dell’esistenza. Ma anche, come Nevo stesso ha suggerito, ai tre livelli della psiche secondo la teoria freudiana: Es, Io, Super-io. Una struttura intelligente, ben congegnata, che funziona come impalcatura per esplorare i desideri più viscerali, le tensioni della realtà e il peso delle norme sociali e della coscienza.
Per leggere la recensione completa: https://bookivora.com/2025/03/14/tre-piani-nel-condominio-dellanima/
La signora Dalloway - Virginia Woolf
“Mrs Dalloway” è un romanzo molto introspettivo e fluido, ma in certi momenti mi ha messo davvero alla prova. Ho amato la capacità di Virginia Woolf di catturare il flusso di pensieri dei personaggi: di farmi entrare nella mente di Clarissa e di chi le ruota attorno, di farmi girovagare in una Londra viva e pulsante. Parallelamente, mi ha colpito parecchio a che la storia di Septimus Warren Smith, un veterano della Prima Guerra Mondiale fortemente segnato da traumi psicologici che lo condurranno a una tragica fine.
È un libro che ha poca trama ma tanta sostanza! Mi è piaciuto ma allo stesso tempo mi ha fatto perdere anche il filo, come se i pensieri di Clarissa fossero talmente intricati da sfuggirmi (È questo l’effetto che fa il flusso di coscienza? Chiedo perché non ho ancora letto l’“Ulisse” di Joyce). Tutto ciò non ha tolto valore alla lettura, anzi: è stata un’esperienza immersiva e intensa, che mi ha fatto riflettere su quanto la mente umana possa essere complessa e stratificata. Ecco, se dovessi scegliere un aggettivo per questo libro userei proprio STRATIFICATO. Il tempo sembra non scorrere, eppure è scandito dalle lancette del Big Ben, dai dettagli della città, dal dinamismo tutt’attorno. Credo che “Mrs Dalloway” non sia un libro da leggere in fretta, ma uno da assaporare con pazienza, quando si è ben predisposti a lasciarsi trasportare dalle onde del pensiero. È stato un piacere entrare in contatto con i momenti dell’essere di Clarissa.
Re: Tre piani - Eshkol Nevo
RECENSIONE CORALE A CURA DE "I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI"
“Tre piani” di Eshkol Nevo è un romanzo INTIMISTA, costruito come un edificio narrativo in cui ogni piano è un mondo a sé, ma insieme compongono un’unica riflessione sull’essere umano e sulle caratteristiche che lo abitano. Tre racconti, tre protagonisti, tre confessioni: ogni piano rappresenta un diverso stato emotivo ed esistenziale, come se l’autore guidasse il lettore in un percorso DANTESCO, che va dall’Inferno del sospetto, al Purgatorio dell’insicurezza, fino al Paradiso incerto ma possibile della liberazione interiore.
Al primo piano c’è Arnon, ex militare e padre (fin troppo) premuroso, divorato dal sospetto che sua figlia possa essere stata abusata. La sua voce è carica di tensione e il racconto - rivolto a un amico in un lungo monologo - trascina in un vortice ANGOSCIANTE. La realtà resta sempre ambigua e il lettore, come il protagonista, non riesce a distinguere chiaramente i fatti dalla paura. È un piano INQUIETANTE, dove la ricerca di verità si confonde con il bisogno di controllo e il senso di giustizia rischia di trasformarsi in ossessione. Questo primo racconto è il più oscuro: AMBIGUO, irrisolto, un vero e proprio Inferno psicologico da cui non si esce indenni.
Al secondo piano vive Hani, donna sola, madre di due figli piccoli e moglie di un uomo spesso assente. Il suo racconto prende la forma di una lunga lettera indirizzata a un’amica d’infanzia, una voce TENERA, ma segnata da un profondo senso di SOLITUDINE. Quando il cognato, latitante, si presenta alla sua porta chiedendo rifugio, Hani lo accoglie senza sapere esattamente perché. Forse per ribellarsi al vuoto che la circonda, forse solo per sentire di esistere. Il suo è un piano DESOLANTE, DEPRESSIVO, dove l’equilibrio mentale è sempre in bilico. Ma è anche emotivamente vicino, UMANO: chiunque ha conosciuto il peso del non essere visto, del timore di perdersi dentro la propria vita. È il Purgatorio del romanzo, dove non si è più nell’oscurità, ma nemmeno ancora nella luce.
Infine, al terzo piano, incontriamo Dovra, ex giudice, da poco vedova. Il suo racconto si sviluppa attraverso messaggi registrati sulla segreteria telefonica del marito defunto. È qui che Nevo raggiunge forse il livello più complesso e affascinante: la protagonista si confronta con il proprio passato, con il difficile rapporto col figlio, con la solitudine scelta e subita. La sua voce è TRISTE, ma anche IRONICA e soprattutto carica di voglia di cambiare. È un racconto a tratti MISTERIOSO e profondamente INTROSPETTIVO, dove l’elaborazione del lutto lascia lentamente spazio a un desiderio di rinascita. In questo piano, il romanzo apre finalmente uno spiraglio: il NUOVO INIZIO, la SPERANZA, la possibilità di uscire da sé per ritrovare un equilibrio diverso. È il Paradiso che chiude il cerchio.
Nel complesso, “Tre piani” è un romanzo PROFONDO, che ci invita a guardare oltre le apparenze, oltre le facciate lisce e ordinate delle case, delle famiglie, dei rapporti. C’è un gioco sottile tra ciò che si mostra e ciò che si cela, e Nevo è abile nel rendere visibile quella frattura. I suoi personaggi sono figure NEVROTICHE, eppure reali, in cui è impossibile non riconoscere qualcosa di nostro. La scrittura è a tratti STRARIPANTE, densa di pensieri, piena di dettagli minimi - l’appartamento colmo di orologi, l’insistente magrezza del cognato - che sembrano marginali ma creano un realismo ipnotico, come in un film di Bergman. Ci sono momenti di grande intensità, ma anche pause brusche, digressioni che rallentano la narrazione: il romanzo è, in questo senso, SBILANCIATO, e non tutti riescono a trovare la stessa coerenza.
Qualcuno lo ha definito IRRITANTE, persino MEDIOCRE, forse per la scelta di non sciogliere del tutto i nodi, di lasciare irrisolte alcune questioni centrali. Eppure, altri lo hanno definito NECESSARIO: perché ci ricorda quanto sia fondamentale parlare, confidarsi, anche solo registrando un messaggio a chi non può più ascoltarci.
Eshkol Nevo, con una formazione in Psicologia, rende evidente il suo impianto teorico sul finale, quando la protagonista acquista l’opera omnia di Freud. Il riferimento al modello dell’Io, Es e Super-Io diventa allora non solo chiave di lettura, ma cornice dell’intero romanzo. Ma la domanda rimane: è davvero necessario offrirci questa spiegazione? Oppure ogni lettore avrebbe potuto (e dovuto) trovare la propria interpretazione, sentire sulla pelle questo percorso interiore?
“Tre piani” è un romanzo INTIMO e LIBERATORIO: Eshkol Nevo, attraverso la scrittura, racconta l’animo umano nella sua complessità, restituendo l’autenticità di ciò che siamo (e, forse, anche di ciò che non vorremmo ammettere di essere). Il pericolo più grande, sembra suggerire, sarebbe proprio quello di non riconoscere che anche dentro di noi convivono le fragilità e le ombre dei suoi personaggi. La rigidità è pericolosa e il lavoro su di sé è l’unica via per vivere davvero e per riconoscerci.
R: La casa della moschea - Kader Abdolah
«Volevo mostrare e dimostrare che la cultura islamica, il popolo islamico e la gente religiosa possono vivere insieme nella pace e nell’amore, ma il fanatismo e gli islamici fanatici e la politica possono distruggere la vita.»
Non poteva usare parole migliori, Kader Abdolah, per descrivere il suo romanzo, "La casa della moschea" ("Het huis van de moskee"), pubblicato per la prima volta nel 2005 in lingua olandese e nel 2008, in italiano, da Iperborea. Attraverso le vicende della famiglia di Aga Jan e degli abitanti della casa della moschea, Abdolah intreccia la vita quotidiana con i grandi eventi della Storia, mostrando come il destino individuale e quello collettivo possano essere travolti dall’ascesa delle logiche estremiste e da trasformazioni difficili da arginare. La casa, simbolo di stabilità e spiritualità, diventa teatro di un cambiamento che sconvolge equilibri secolari, trasformando la fede da forza unificante a strumento di repressione.
La prosa di Kader Abdolah è intensa e – soprattutto – capace di restituire il senso di perdita di chi si vede costretto a scegliere tra adattamento o “ribellione”. E chi più di lui può comprenderne le conseguenze? Il suo vero nome è Hossein Sadjadi Ghaemmaghami Farahani, iraniano naturalizzato olandese dopo l’esilio del 1985 imposto dalla repressione degli ayatollah. La sua stessa vita è segnata da quel bivio tra resistenza ed esilio, e questo conferisce al suo romanzo una profondità e un’autenticità ancora più grandi.
«La vita non mostra mai sempre lo stesso volto e non dimenticare mai che c’è una ragione per tutto.»
È una narrazione che parla di Iran, che ha alcuni nomi ed eventi romanzati, ma che risuona ovunque vi sia un conflitto tra tradizione e modernità, tra religione e politica. Oggi, con la rinnovata attualità delle tensioni in Medio Oriente, La casa della moschea continua a essere un romanzo necessario, un ponte tra culture e un monito contro i pericoli dell’estremismo.
La storia segue la famiglia di Aga Jan, un mercante di tappeti tradizionalista e influente, custode della moschea di Senjan. La casa della moschea è il cuore pulsante della comunità, il simbolo di una religiosità che per lungo tempo ha rappresentato stabilità e ordine. Le cose cominciano a cambiare con l’avvento della rivoluzione islamica, soprattutto con l’insediamento del governo stabilito da Khomeini.
«Quando era ancora a Parigi, Khomeini aveva promesso che avrebbe tollerato chi la pensava in modo diverso da lui. Ma adesso che è al potere, ha cambiato completamente politica. Considera i militanti di sinistra gente blasfema per la quale con c’è posto nel suo regime islamico. Per questo abbiamo fatto un passo indietro e viviamo nascosti in luoghi segreti. Non ci si può fidare di Khomeini.»
Per leggere la recensione completa: https://bookivora.com/2025/02/14/un-ponte-tra-passato-e-presente-il-valore-attuale-de-la-casa-della-moschea/
La casa della moschea - Kader Abdolah
RECENSIONE CORALE A CURA DE "I MISERALIBRI – GRUPPO DI LETTURA BIBLIOTECA DI CHIARI"
"La casa della moschea" di Kader Abdolah è un romanzo che mescola vita quotidiana e grandi eventi della Storia. Le vicende sono quelle della famiglia di Aga Jan, commerciante di tappeti e soprattutto stimato capofamiglia. La narrazione apre una FINESTRA SPAZIO-TEMPORALE su un mondo lontano, permettendo al lettore di diventare spettatore di accadimenti storico-religiosi che, forse, conosceva solo superficialmente. Tutto si snoda tra tradizione e cambiamento, tra delicatezza e ferocia, offrendo un affresco complesso e intenso dell’Iran pre e post rivoluzione.
La condizione femminile è un argomento piuttosto spinoso, spesso BRUTALE, e tocca corde che lasciano sgomenti. È difficile immaginarsi donna in quel contesto, durante la rivoluzione religiosa, e certi episodi rendono questi pensieri ancora più inconcepibili. Il governo stabilito da Khomeini non fa altro che rendere ogni cosa ancora più ANGOSCIANTE e PESANTE, segnata da violenza e perdite, portando in scena una componente fanatica che rende la storia, soprattutto la seconda parte, davvero OPPRIMENTE.
Ciononostante, "La casa della moschea" riesce a essere anche un libro POETICO, BELLO e STRUGGENTE: lo stile di Abdolah, con la sua profondità, richiama per certi versi le suggestioni visive e narrative di Persepolis. Si tratta di un’opera MERAVIGLIOSA che introduce chi la legge in un universo variopinto e ricco di sfumature, popolato da personaggi difficili da dimenticare e innumerevoli immagini evocative (come quelle degli uccelli). È ambientato negli anni Settanta ma può essere definito un romanzo dalla storia estremamente ATTUALE perché le sue riflessioni sulla teocrazia risuonano anche nel Medio Oriente di oggi, così fragile e in bilico.
Il senso di APPARTENENZA che permea il romanzo è davvero profondo. Ogni personaggio è visceralmente legato alla casa: un microcosmo IMMERSIVO in cui la vita scorre con le sue tradizioni e le sue ritualità. Il lettore stesso sente di abitare in quel luogo, ne percepisce i suoni e le presenze, fino a condividerne anche il pericolo crescente quando il mondo circostante - il macrocosmo intorno - precipita nel caos.
C’è un tocco di ETERNITÀ nella narrazione, che suggerisce un ciclo infinito di storia, speranza e tragedia. Ecco perché il romanzo è così COINVOLGENTE da suscitare emozioni forti: l’autore riesce a tratteggiare un “prima” e un “dopo” Khomeini con grande maestria, descrivendo un climax ascendente di trasformazioni difficili da arginare. "La casa della moschea" è STORICO perché permette di conoscere un’epoca forse poco nota ai lettori occidentali, con il respiro di una saga familiare e la magia di un racconto da Le mille e una notte. La sua capacità di far conoscere un periodo complesso, insieme alle personalità sfaccettate che lo abitano, rendono il libro EPICO e AFFASCINANTE.
Il fatto che l’autore abbia scritto in olandese aggiunge un ulteriore strato di riflessione sulla diaspora e sulla memoria: lo stesso Abdolah Kader conosce bene sulla propria pelle le conseguenze delle trasformazioni religiose e la necessità di “salvarsi” dalle repressioni degli ayatollah. Ha lasciato l'Iran nel 1985 e si è trasferito nei Paesi Bassi per scrivere “da lontano” del suo paese natio.
Tra i temi più incisivi emergono alcune opposizioni fondamentali. Da un lato, c'è il contrasto tra Teheran, più aperta e moderna, e le province, dove la vita è segnata da un maggior controllo e oppressione. Si avverte anche la tensione tra la tradizione, che scandisce il ritmo della vita quotidiana, e il fanatismo religioso, che travolge e stravolge tutto ciò che trova sul suo cammino. Un altro elemento centrale è il ruolo della poesia, utilizzata come forma di resistenza e strumento per preservare bellezza e identità. La tecnologia, invece, appare come un'arma a doppio taglio, capace di modernizzare ma anche di essere vista come uno strumento che corrompe e tenta l’animo. Un ruolo chiave lo ha anche la superstizione, che permea la narrazione attraverso la presenza simbolica degli animali, come formiche e cavallette, annunciatrici di un disastro imminente.
Aga Jan è una delle figure più apprezzate: la sua solidità interiore resiste anche quando tutto intorno a lui sembra sgretolarsi. Come lui, anche le nonne, che rappresentano un'ancora di dolcezza e saggezza, offrendo momenti di profonda commozione. Altri personaggi, come Ghalghal e Zeynat, suscitano invece emozioni contrastanti per la loro ambiguità morale e le loro scelte.
Il romanzo si divide nettamente in due parti. La prima è caratterizzata da un’atmosfera poetica e sognante, che avvolge il lettore e lo trasporta in una dimensione quasi fiabesca. La seconda, diversamente, è devastante: il cambiamento radicale della situazione politica e sociale lascia il lettore impotente di fronte al peggioramento degli eventi, rendendo ancora più struggente il confronto con il fascino iniziale della storia.
"La casa della moschea" è un romanzo che lascia il segno: un’opera intensa, dolorosa e imprescindibile, soprattutto per chi vuole comprendere le dinamiche profonde della storia iraniana e delle sue contraddizioni.
P.s. Vi lascio il link per vedere "La mucca", film citato nel libro che durante il dibattito ha suscitato molte curiosità. https://www.imvbox.com/en/movies/the-cow-gav
«Era un film adatto alla nuova repubblica islamica di Khomeini, perché il villaggio era lontano anni luce dalla modernità: le contadine portavano tutte il velo e il Corano era presente ovunque. Non c’era l’elettricità e neanche l'acqua potabile, non si sentiva suonare musica e nessuno aveva la radio.»